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Quando l'Aids colpisce: due serie a confronto

 

Stesso tema, paesi diversi, due serie che rimangono impresse nella mente e nel cuore.
Oggi voglio mettere a confronto It’s a sin, di Russell T. Davies, e Pose, di Ryan Murphy, Brad Falchuk e Steven Canals.
Non chiedetemi quale mi piace di più perché, secondo me, sono a parimerito e vi consiglio di vederle entrambe.
Partiamo quindi con questo confronto!

ORIGINE E AMBIENTAZIONE DELLE SERIE



It’s a sin (in italiano “è peccato”) prende il nome dal famosissimo brano lanciato dai Pet Shop Boys e dedicato a tutti coloro che sono “diversi” e per questo vengono incolpati.
Vi invito peraltro a vedere sia il video dei Pet Shop Boys, sia la versione contemporanea realizzata dal mitico Elton John e dal superlativo Olly Alexander (che nella serie interpreta Ritchie Tozier) con il suo gruppo, gli Years & Years.
La serie è ambientata a Londra a cavallo fra il 1981 e il 1991, segue le vicende di un gruppo di amici sia omosessuali che etero, alle prese con il passaggio fra l’adolescenza e l’età adulta, il desiderio di indipendenza, i primi amori, i cambiamenti del paese sotto la guida di Margaret Tatcher e la minaccia dell’Aids.



Pose (in italiano “posare”) nasce invece dal documentario Paris is burning, del 1990, che presentò al mondo la sottocultura delle Ballroom, un movimento esistente negli Stati Uniti dove omosessuali e transessuali, prettamente di origine afroamericana o caraibica, si uniscono in Case.
Le Case sono il sostituto delle famiglie per i ragazzi senza dimora, e i suoi membri partecipano alle ball, delle gare di moda, ballo e recitazione (spesso atte a imitare il mondo etero).
Il mondo delle Ball è stato reso famoso dalla canzone Vogue, di Madonna.
Le vicende di Blanca, Elektra, Pray Tell e i loro amici coprono un arco narrativo che spazia dal 1982 al 1998.

I cast sono eccezionali e le colonne sonore strepitose, in questo le serie si equivalgono.
Per me che sono europea, ho preferito senza dubbio l’ambientazione di It’s a sin perché ha più ampio respiro e senza dubbio è vicina alla mia cultura.

In questo senso Pose è meno inclusivo, bisogna prenderci la mano per entrare in un mondo che, per certi versi, somiglia molto a un ghetto e che conoscono in pochissimi.

LA FAMIGLIA



Il tema della famiglia è molto forte.
C’è la famiglia biologica dei protagonisti e c’è quella per elezione.
Le famiglie biologiche, lo ammetto, non sono un granché.
Per Ritchie, Ash, Roscoe e gli altri ragazzi di Londra le famiglie biologiche sono quasi tutte deleterie, soffocanti, non accettano i loro figli per ciò che sono e spesso li cacciano di casa.

Per Blanca, Pray Tell, Elektra e i membri delle ballroom il tema non cambia.
Anche qui ci sono genitori che non accettano, che spesso picchiano i figli e che li lasciano al loro destino.
Come se essere gay o transessuali sia una colpa.
Il tema è trattato con molta serietà e questo mi è piaciuto perché fa capire agli spettatori che far parte del mondo arcobaleno non significa andare al Pride a fare i cog***ni ma vuol dire farsi accettare da un mondo spesso cieco, cercare un posto dove essere felici e delle persone da amare e da cui essere amati senza pregiudizi.

Ed ecco come si arriva alla famiglia vera, quella per elezione.
In It’s a Sin la famiglia è composta dagli amici, quasi tutti studenti universitari che vivono al Pink Palace, un fatiscente palazzo della periferia londinese.
In Pose le famiglie si creano attraverso le ballroom, dove ragazzi abbandonati a se stessi trovano persone più grandi (le madri e i padri) pronti a prendersi cura di loro, a guidarli negli studi e a fare in modo che abbiano un lavoro e che diventino a loro volta padri e madri pronti a prendersi cura di altri giovani abbandonati.
Il messaggio è forte e univoco: la famiglia non è il nucleo in cui nasci, ma quello che ti crei.

L’AIDS

Il tema più sentito è l’Aids che, come sapete tutti, fra gli anni Ottanta e Novanta ha mietuto vittime a non finire ma anche oggi purtroppo non scherza.
Nelle serie viene trattato in modo diverso.


In Pose l’Aids non è proprio il fulcro centrale, spesso è offuscato dalle ballroom e dal transessualismo che credo sia stato in realtà il vero argomento della serie: si passa da Blanca per arrivare ad Angel, Elektra, Candy, Lulu e più o meno tutte le ragazze delle ballroom per parlare della transizione sessuale, dei diritti dei transessuali (e anche degli omosessuali) appartenenti però solo alle etnie afroamericane e caraibiche.

Lo sottolineo perché, in questo senso, la serie mi è sembrata un po’ discriminatoria ma ve ne parlerò dopo.
L’Aids, come dicevo, diventa davvero importante solo nella stagione finale quando Pray Tell muore a causa della malattia e viene riproposto un amarcord per commemorare il movimento Act Up che si batteva per ottenere chiarezza e cure gratis per tutti contro l’Aids.


La malattia viene senza dubbio trattata con maggiore attenzione in It’s a sin.
Quando inizialmente arrivano le prime voci sul virus abbiamo reazioni diverse: Ash e Roscoe, per esempio, assumono subito comportamenti atti a tutelare la loro salute mentre Ritchie li prende in giro dicendo che l’Aids è un complotto del governo per spaventare i gay.
Ma poi il virus inizia a mietere le sue vittime e da qui in poi non c’è scampo: puntata dopo puntata, l’Aids è uno spettro che insegue e uccide quasi tutti i protagonisti per culminare nella morte tristissima di Ritchie.
Non ci sono scene edulcorate, non ci sono ballroom, non si scappa.
C’è l’Aids in tutta la sua cruda realtà.

I FINALI


Il finale che mi è piaciuto di più è quello di It’s a sin.

Drammatico, profondo, tiene alta la linea narrativa dalla prima all’ultima scena e condensa in un solo episodio tutte le emozioni che abbiamo trovato in quelli precedenti.
La morte di Ritchie segna la fine di un’epoca ma apre un nuovo capitolo, dando una speranza a chi rimane.
Roscoe si riappacifica con suo padre, che ha accettato la sua omosessualità e ha compreso, durante una missione in Africa, la gravità dell’Aids.
Ash porterà avanti il ricordo del suo amato Ritchie, mentre Lydia diventa infermiera e si prende cura dei pazienti malati di Aids per i quali, si spera, possa giungere presto una cura più efficace dell’Azt.
Il pathos è alle stelle, secondo me è uno dei finali migliori che abbia mai visto in una serie.

Il finale di Pose è invece un ondeggiare, si innalza a livelli massimi e poi scivola in basso.
Fintanto che si parla di Pray Tell e di come si sia sacrificato per amore, rinunciando alle cure per l’Aids in favore del compagno Ricky, siamo al top.
Billy Porter è stato fenomenale, il modo in cui ha gestito il personaggio di Pray Tell nel suo addio al mondo è commovente.
Altrettanto bello è il momento in cui la serie ricorda la protesta di Act Up contro Giuliani, l’allora sindaco di New York che non voleva rendere i medicinali per l’Aids accessibili a tutti.
Meno bella è la seconda parte del finale, nel 1998, quando Blanca, Elektra, Lulu e Angel si ritrovano per fare una sorta di raffazzonato riassunto di ciò che sono diventate le loro vite.
In una scena le quattro donne siedono in un ristorante e, chissà perché, vanno a muovere una critica pesante nei confronti della serie cult di Sex and the City tacciandola di razzismo e di omofobia.
Autori della serie, ma che vi ha preso?
Sex and the City non è mai stata razzista (Miranda, una delle protagoniste, ha avuto per esempio un compagno di colore per una stagione della serie) né omofoba, infatti Stanford e Anthony sono la coppia gay culto della serie e anche Samantha, un’altra delle quattro mitiche amiche, ha per un po’ una relazione con una donna (interpretata nella serie da Sonia Braga).
E quindi?
A che serviva questa critica che sa tanto di discriminazione? Perché siamo sempre lì, più che inclusiva a volte Pose sembra discriminatoria: a parte l’infermiera Judy, non c’è un personaggio bianco fisso nella serie, sono tutti afroamericani o latinoamericani.
Fosse per me, mi sarei fermata col funerale di Pray Tell.

Cosa posso dire?
Entrambe le serie sono da guardare, senza dubbio.
Tutte e due hanno i loro pregi e i loro difetti, però entrambe lasciano un profondo segno nell’anima e lanciano un importante messaggio: qualsiasi cosa accada, non è finita finché non è finita e vale sempre la pena di lottare per i propri sogni.

3 commenti:

  1. Pose, mi sa tanto che l'abbia visto mia figlia. E le è piaciuto tantissimo. L'altra serie invece, non la conosco

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    1. Certo è che di Aids ormai se ne parla davvero troppo poco

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  2. Ho visto solo It's a sin e penso che sia la miglior serie che Davies ha realizzato, complice il fatto che c'è molto della sua storia personale dietro.
    Vedrò di trovare Pose in streaming.
    Buona Pasqua!

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